La seconda ondata di Covid19 ci rigetta nella paura e nell'angoscia, lasciandoci smarriti. Oggi più che mai la psicoterapia può aiutare a ritrovare il senso della vita, mettendo al centro la parola di ogni singolo paziente
L'esperienza che stiamo vivendo da molti mesi è riconducibile in termini psicologici a un evento traumatico, di conseguenza si instaurano delle dinamiche psico-sociali riconducibili appunto agli eventi traumatici.
L'impatto con l'evento traumatico, così come è stato pubblicato da una recente ricerca del San Raffaele (studio pubblicato il 4/08/2020 sulla rivista scientifica Brain, Behavior and Immunity e coordinato dal professore e psichiatra Francesco Benedetti), ha evidenziato la presenza di ripercussioni psichiche. Come evidenziato da questa ricerca emerge che su 402 pazienti contagiati dal COVID19 (265 uomini e 137 donne) i sintomi psichici più diffusi sono:
disturbo post-traumatico da stress nel 28% dei casi;
depressione nel 31%;
ansia nel 42%;
insonnia nel 40%;
sintomatologia ossessivo-compulsiva nel 20%.
Lo studio rivela dunque che vi è un aumento di sintomatologie psicopatologiche legate al contesto del disagio psico-sociale causato dalla pandemia di COVID19.
Seconda ondata: dalla paura all'angoscia
Nella prima ondata del virus siamo stati colti di sorpresa ed è prevalsa la paura perché vi era una impreparazione su quanto stava emergendo. Nella seconda ondata, così come è stata definita questa fase, prevale, invece, un senso di angoscia: pur sapendo che la seconda ondata sarebbe arrivata, ci siamo scoperti incapaci di governarla, come dimostrano i dati sull'estensione del contagio che ci provengono quotidianamente dall'Istituto Superiore di Sanità.
Gli sforzi attuati dal sistema sanitario per riuscire a contenere i contagi non hanno tuttavia posto freno ai sentimenti di paura e di angoscia dei cittadini. Le ripercussioni psicologiche, così come esposte nella ricerca sopra menzionata, dimostrano che davanti a questo tipo di trauma - inteso come evento incontrollabile e ingovernabile - un gran numero di persone manifesta paura, sbalzi umorali, senso di solitudine e preoccupazione per il futuro.
La paura e l'angoscia emergono laddove l'essere umano viene colto all'improvviso dagli eventi che non riesce a “governare”. Per questa ragione in questa seconda ondata le persone si sentono smarrite e senza forza nell'affrontare ancora una volta una situazione di stress. Lo smarrimento che prevale ha le sue radici nel fatto che la la nostra “società dei consumi” si fonda sulla “cultura del benessere”, allontanando così ogni evento che genera sofferenza.
Ma questo è solo un tentativo riduttivo perché, nell'impatto con il trauma, l'uomo si sente “nudo davanti alla vita”, sperimenta la propria solitudine, si rinchiude in se stesso difendendosi dall'altro ritenuto, come ad esempio nel caso del COVID19, un “untore”, sopprimendo ogni tentativo di relazione con i legami affettivi.
E' vero, in tempo di pandemia ci deve essere un senso di responsabilità individuale per evitare ogni possibile contagio, ma le persone non possono trascurare o sopprimere il desiderio di curare se stessi e le relazioni con gli altri. In questo senso, potremmo anche definire questo tempo di pandemia, come il tempo dell'allontanamento dei corpi (ad esempio l'abbraccio) e questo causa in molti casi sofferenza.
I bisogni dell'uomo non si soddisfano solo con il possesso di oggetti
Qui ritengo necessario fare un breve inciso sulla nostra epoca.
Oggi si è esorcizzata ogni forma di fragilità e di sofferenza, si è diffuso il pensiero che nella vita dell’uomo non esiste il malessere.
La società iper-moderna, come quella attuale, ha da sempre proclamato che è possibile per ogni essere umano essere felice, promettendo oasi di benessere e garantendo a chiunque il godimento assoluto.
La promessa dell’epoca iper-moderna, nel suo risvolto perverso, è che ogni uomo può soddisfarsi nei suoi bisogni individuali.
Ogni bisogno può essere soddisfatto con il possesso e il consumo di oggetti, e l’uomo è ridotto allo stato di un “turbo consumatore”. Tuttavia questa idea con il tempo rivela che la ricerca spasmodica di oggetti, di oggetti feticcio, è solo il banale tentativo di “tappare” quel senso di mancanza costitutivo che caratterizza ogni essere umano.
Lo scoramento, il senso di angoscia, le paure che soprattutto in questa situazione di emergenza sanitaria colpiscono la vita degli individui, ci segnalano infatti che all’essere umano non può bastare la soddisfazione del consumo di oggetti, e che che vi è invece in ciascuno di noi il bisogno di qualcosa di diverso, di altro.
L'essere umano non ha bisogno di riempirsi di oggetti, di vivere la propria vita verso il raggiungimento di obiettivi esterni a se stesso, ma di riconoscersi come soggetto della propria vita e del proprio desiderio.
Il desiderio non consiste in un movimento del soggetto verso il raggiungimento di qualcosa al di fuori di lui (questo è più il senso della pulsione), ma nel vivere pienamente come soggetto la propria vita.
Ritrovare il senso della vita con l'aiuto di uno psicoterapeuta
Allora perché proprio in questo momento è necessario rivolgersi ad uno psicoterapeuta oppure ad uno psicoanalista?
La risposta è molto delicata e non può essere affrontata in modo riduttivo.
Iniziamo solo col dire che occorre non stigmatizzare i sintomi dei pazienti esclusivamente all'interno di categorie diagnostiche medico-sanitarie.
Per questa ragione, nel tempo del trauma, occorre che ci sia la disponibilità di professionisti che generino uno spazio e un luogo di accoglienza, in cui la richiesta di aiuto non sia schiacciata da un sapere assoluto del terapeuta detentore di una ricetta sempre pronta per ogni situazione.
L'importante è che il terapeuta, nell'incontro con la domanda di aiuto, sia disponibile a generare un luogo di ascolto che valorizzi la singolarità della parola dei pazienti.
Nel percorso di cura, la parola del paziente assume il contenuto di un grido: “Non ce la faccio più. Non capisco cosa mi sta accadendo. Non capisco dove sono. Chi sono. Ho paura nell'affrontare la vita di ogni giorno”.
In questi casi la propria sofferenza assume il valore di una domanda che non riesce a trovare una risposta facile, universale e valida per tutti.
Per rivolgersi ad uno psicoterapeuta ci vuole coraggio?
Il coraggio consiste nell'affrontare il proprio disagio psichico in un momento in cui le forze vengono a mancare, in cui ci sente svuotati di un senso sulla propria vita, generando una spinta mortifera verso se stessi e verso gli altri.
Diversamente, la sofferenza vissuta dai pazienti rivela che vi è ancora la possibilità di trasformare la propria vita verso un futuro diverso da quello vissuto fino ad ora.
Questo aspetto è in relazione alla possibilità di uscire dal tunnel della propria sofferenza che blocca quella spinta vitale presente in ogni essere umano.
Nel percorso di cura il paziente sperimenta il fallimento delle risposte illusorie che da sempre lo hanno orientato e che lo hanno portato a scelte ripetitive.
Il percorso di cura interrompe quella ripetitività e viene riconosciuto che è giunto il momento di cogliere le proprie emozioni, sollevarsi da un passato che spesso diventa un fardello pesante che irrigidisce il soggetto umano.
Il terapeuta accoglie la domanda di aiuto, ascolta la parola dei pazienti, senza alcuna pretesa di palliativi che apportano solo il momentaneo ristoro dal malessere. Solo così la terapia può essere non una ortopedia della vita ma una cura che mette al centro la parola di ogni singolo paziente. Mai come in questo tempo è importante per le persone essere sostenute in un percorso di cura e di ascolto che riesca a trovare l'accoglienza di terapeuti che, attraverso la loro esperienza, si rendano disponibili a ricevere la richiesta di aiuto per trasformarla in un'apertura alla vita.
In fondo condivido il pensiero dello psicoanalista Massimo Recalcati il quale in una recente intervista alll'Huffingtonpost afferma: “Siamo in un tempo difficile. La pena e l'angoscia sono grandi. Siamo smarriti senza riferimenti certi, spaventati. E' il tempo nel quale l'amore prende le forme del pensiero e delle azioni rivolte verso chi è nel buio più fitto”.
del Dott. Vincenzo Moretti Psicoanalista - Professionista del Centro Kaleidos.
“Un parola muore appena detta dice qualcuno. Io dico che solo in quel momento comincia a vivere”, Emily Dickinson
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